Autore teatrale d'intrighi polizieschi, Michael Caine inventa un piano diabolico (e troppo lungo e complicato per essere descritto in questa sede) per riacciuffare la fortuna professionale oltre che quella sentimentale. Deathtrap è filmato molto bene da un regista di grande esperienza, al quale è mancato quel pizzico di genio e di follia per diventare un "grande" dell'arte cinematografica. Sapientemente organizzato secondo il principio dell'unità di luogo, dell'universo concentrato in un solo ambiente nel quale la tensione cresce e si dilata a dispetto della complessità dell'intrigo, il film fa pensare a certi altri lavori dell'autore teatrale dal quale è tratto, Ira Levin, come Rosemary's baby. Stilisticamente più che a Polansky e per la presenza di Michael Caine, si richiama al capolavoro di Mankiewicz, Il segugio (Sleuth). Seguito più o meno credibile di colpi di teatro, Deathtrap è un po' troppo macchinoso per permettere a Lumet (genio a parte) quello che riusciva a Mankiewicz: un'esercitazione di stile su dei rapporti di forza, estremamente sintetizzati, e impersonificati da due grandi attori.
Verità e finzione (uno dei temi che Lumet ha analizzato a lungo, dal suo primo La parola ai giurati al recente Il verdetto), e l'eterna lotta fra la vittima e l'aguzzino si perdono qui tra le pieghe troppo machiavelliche di una sceneggiatura impossibile. Una sceneggiatura che avrebbe condotto al disastro un regista meno ferrato di Lumet; e che gli permette, se non l'arte, perlomeno il divertimento.